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Edizione provinciale di Pordenone


IL PERSONAGGIO - Marco Santarossa, il calciatore, l'uomo, l'educatore

Perno della Sanvitese che aspira ai play-off, sta lavorando sodo per continuare il suo viaggio calcistico (che si intreccia con quello della vita di tutti i giorni) nelle vesti di allenatore, mettendo a frutto le sue esperienze agonistiche (anche in serie D) e quelle lavorative come il master in psicomotricità

Con Marco Santarossa non si può tergiversare troppo e parlare di pallone risulta riduttivo. Una stagione in salita quella del veterano del calcio regionale, 35 anni ad ottobre, reduce da una lunga serie di infortuni.

Il centrocampista ammette: “È stata una stagione sfortunata. Ho subito uno stiramento al flessore e una forma di labirintite che mi hanno tenuto distante dai campi per diverse partite. La stagione però non è ancora finita.”
No di certo, perché la sua Sanvitese, posizionata al terzo posto, rientra tra le squadre in lizza per la partecipazione ai play off di Promozione del girone A, “Grazie soprattutto a delle persone vere, professionali, dirette da un allenatore, Max Rossi, dall’enorme bagaglio tecnico-tattico-umano.”

Figura di riferimento per le nuove leve, dopo una lunga trafila di esperienze tra Fiume Veneto, Fontanafredda, Sanvitese, Spal Cordovado, Julia Concordia, Prata, Cordenons, Flaibano, dopo delle “stagioni formative come quella di San Vito in Serie D, con una squadra fatta dal trio difensivo Campaner, Zamaro e Giordano e da un centrocampo forte con Rella, Nuti e Leonarduzzi. Dopo un paio di bienni indimenticabili come quelli vissuti a Prata e Cordenons, dove ho conservato degli amici veri che frequento tutt’ora, tutti presenti al mio matrimonio, avvenuto l’anno scorso. Sono stati due spogliatoi fatti da gente intelligente, motivata, che aveva molto da dare.”

Otto finali play off e due promozioni, dopo tanto calcio giocato, da appuntare in questa chiacchierata, come anticipato, è ciò che Marco ha da dire circa la sua esperienza con i ragazzi. Si divide tra il doposcuola scolastico e la promozione della Psicomotricità negli Asili, dove denuncia una quasi esclusiva presenza femminile. “Nell’ambito educativo infantile la presenza maschile è minima, mentre un uomo sarebbe importante per dare una prospettiva diversa della vita. Forse paghiamo un retaggio tradizionale che delega alla donna la crescita del bambino, forse l’uomo è intimorito dalla sproporzione numerica e anche del dolore e della responsabilità che comporta la crescita di un essere. Ripeto, sono necessarie le figure maschili, se non altro per non costringere la donna a deformarsi per sostituirle.”

Continua: “Sto terminando il master in Psicomotricità a Venezia, è una disciplina relazionale che permette al bambino da 0 a 7 anni, dal linguaggio verbale in formazione, di scoprire le potenzialità del proprio corpo e analizzare il suo rapporto con lo spazio, l’educatore e l’altro, in aree attrezzate con materassi, spalliere, oggetti colorati e di varia forma. Strisciando, rotolando, arrampicandosi, saltando, i bambini riescono ad esprimersi e a comunicare i propri blocchi, le proprie difficoltà, i propri sentimenti agli educatori che sanno leggerli. Non è un’attività strutturata, c’è la massima libertà e si basa sull’espressività motoria del fanciullo lasciato libero di giocare e, come diceva Platone: “Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco, che in un anno di conversazione.” A mio avviso potrebbe essere estesa sia all’adolescenza che alla vecchiaia, rivolta a fasce d’età poco ascoltate, che in questa maniera potrebbero comunicare diversamente.”

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Sala di Psicomotricità

L’educatore in Psicomotricità in Italia non è ancora riconosciuto professionalmente, ma promuove un’attività indispensabile alla crescita del ragazzo. In Francia è praticata dagli anni Ottanta.
Marco unisce i valori tradizionali agli studi recenti: “Bisogna fare un passo nel passato. I genitori di oggi non dedicano molto tempo di qualità ai propri figli, li parcheggiano con dei regali e nei videogiochi. Non stimolano più il loro desiderio, tutto sembra permesso e concedibile. I ragazzi non hanno più la possibilità di svagarsi in oratorio, sentirsi liberi e pure annoiati, per creare il proprio tempo e il proprio futuro.”

Santarossa ricorda i propri legami forti: “Mi basterebbe essere importante per mio figlio, un decimo di quanto importanti sono stati i miei genitori per me. Mi hanno trasmesso valori veri ed esempi solidi e coerenti” dice Marco, “mi hanno sempre appoggiato anche quando mi sono licenziato dalla professione di geometra per affrontare queste sfide educative, nel calcio e coi ragazzi.”
Così conclude: “E’ importante sognare per indirizzare la propria vita, il mio sogno è di allenare tra i professionisti, anche se so che sarà difficile. Ho conseguito il Patentino Uefa B un paio di anni fa a Pordenone e credo che si debba cercare di formare giocatori pensanti, che sappiano adattarsi alla situazioni e risolvere i problemi incontrati in partita. Bisogna dare ai ragazzi la possibilità di crescere con calma, di sbagliare, di non essere messi subito in competizione. Bisogna mettersi nella condizione di osservare in maniera non giudicante il bambino, solo allora si può analizzare le sue potenzialità e lavorare su suoi limiti. Bisogna riprendere ad investire in educatori e allenatori preparati, per iniziare a formare futuri giocatori capaci di affrontare la complessità del calcio odierno.”

Se è vero che da buone idee nascono buoni ragionamenti e quindi fioriscono ottime azioni, allora Marco ci indica la strada giusta che, ancora prima di terminare la propria carriera da calciatore, sta praticando con convinzione, appoggiato da un saldo mondo familiare e valoriale di riferimento, le vere radici di ogni nuova esistenza.

(L.G.)

                                                                                                                  

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  Scritto da La Redazione il 03/04/2018
 

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