VI DICO LA MIA - No avversario, no party
Inizia la nuova stagione e Loris Garofalo sostituisce al "bisogna vincere e basta" uno sport fatto di valori, di rispetto, di lealtà e anche di fragilità e imperfezioni...
(Tempo di lettura 8 minuti ma da rileggere più volte)
A tutti quelli che leggono le mie personalissime esternazioni in questo spazio di Friuligol, vorrei ribadire che il mio intento è ben lungi dal voler imporre il mio pensiero o, peggio, attaccare ed offendere qualcuno, ben consapevole di non aver mai avuto alcuna verità in tasca. Mi piace, questo sì, sollecitare il lettore a riflettere su argomenti che spesso siamo portati a sorvolare perché presi da mille faccende quotidiane. Se poi qualcuno si sentisse “infastidito” dai miei scritti, ebbene, sono il primo a suggerirgli di orientare altrove le proprie letture.
Tempo fa, per spiegare cosa stessi facendo, intervistato da Franco Poiana per Radio Gioconda, avevo fatto riferimento allo Speakers' Corner, che tradotto dall’inglese significa "angolo degli oratori". È questa un’area di Hyde Park, a Londra, vicino alla quale sorgeva il patibolo di Tyburn. È un luogo tradizionale di discorsi pubblici e dibattiti, specialmente la domenica mattina, dove qualsiasi persona può presentarsi senza essere annunciata e parlare praticamente di qualsiasi argomento desiderato. Essa rappresenta un grandissimo esempio del concetto di libertà di opinione e, anche se molti dei suoi oratori abituali sono soggetti comuni, ha in passato ospitato discorsi di persone molto famose come Karl Marx, Lenin, George Orwell, per citarne solo alcune. Questo luogo talvolta viene usato dai candidati dei principali partiti politici inglesi per le loro campagne elettorali. Ecco, io mi sono ispirato a questo angolo di assoluta democrazia e perciò, anche oggi, con questo spirito vorrei parlarvi diffusamente del concetto di sport e, soprattutto, di come, a mio avviso, esso venga troppo spesso distorto.
Concordo con chi sostiene che chi pratica dello sport contribuisce a definire il proprio stile di vita. Il mantenimento e miglioramento dello stato di salute, la necessità di ritagliarsi momenti di distrazione dalla vita frenetica quotidiana che procede di pari passo con la voglia di svago, il desiderio di curare la linea, lo spirito di competizione, passione e divertimento, sono solo alcune delle motivazioni che spingono l’uomo verso lo sport. Esso rappresenta soprattutto un modello di valori, di forti e profonde convinzioni che incidono sulle nostre azioni, sulle nostre amicizie e relazioni perché diffonde ideali tali da veicolarci ad assumere condotte molto utili alla crescita personale. Quali? Il rispetto, la collaborazione, l’integrazione e appartenenza, la competizione, l’emozione, la disciplina e costanza, l’impegno e sacrificio, la motivazione, l’autostima, l’etica e chissà quanti altri.
Dall’elenco però manca qualcosa. Il senso del limite, della fragilità, della vulnerabilità che si presentano a noi come difetti o tare da rimuovere. Come? Attraverso il successo, conseguito grazie alle proprie capacità e alle proprie forze, dove l’arrivare è inteso come sinonimo di vincere, non di vittoria; gli sconfitti vengono progressivamente eliminati, non contano più nulla!
Nella nostra società dei consumi ciò che conta è la massimizzazione del profitto che in questo contesto chiameremo massimizzazione del risultato che andrà ad incidere sulle valutazioni globali delle nostre vite. Il “basta partecipare” non ha più alcun senso, bisogna vincere e basta!
Sono disposto anche ad accettare che nello sport professionistico il giocare, che include in sé un vincitore e un perdente, non venga neppure preso in considerazione, ma mi preoccupa molto che questo concetto venga traslato in ogni tipo di competizione. A mio avviso i nostri piccoli calciatori che dopodomani diventeranno agonisti, ma pur sempre dilettanti, non devono crescere con questa falsa ideologia. Perciò: il fine del gioco non significa esclusivamente il conseguimento del massimo risultato possibile.
Lo sport professionistico intriso di spettacolo vive di elevate prestazioni, fuori standard per definizione, nella costante ricerca del record. Vero che l’essenza dello sport consiste nel mostrare il meglio dell’uomo, il massimo grado prestazionale a cui il nostro coraggio e il nostro ingegno sanno farci raggiungere, l’obiettivo massimo a cui i professionisti tendono, ma, per carità, non è affatto l’unico. Prima di ragionare da professionisti dobbiamo imparare, per poi trasmettere ai più giovani il saper accettare i nostri limiti, le nostre imperfezioni, l’età che avanza. Nello sport, così come nella vita, non conta solo la vittoria e che, tutto ciò che ci permette di conseguirla, sia ritenuto accettabile. Di più, vista così, non ci sarebbe neppure spazio per gli sconfitti, nessuna importanza al fatto che io abbia dato il massimo o quanto io mi sia impegnato. Inoltre il parallelismo con una logica di tipo bellico sarebbe come minimo inquietante ma, ahimè, concreto, ovvero l’esatta negazione del pensiero sportivo. Ricordiamoci anche dello spirito olimpico che riusciva a fermare guerre. Oggi siamo spettatori di tante atrocità che stanno consumandosi in Ucraina, comuni purtroppo in ogni guerra, dove quello che conta è sempre e solo sopraffare il nemico con ogni mezzo. Vincere è l’unico obiettivo, annichilire l’avversario, disintegrarlo! Mi preoccupa pensare che non tutti la pensino come me ma voglio sperare che, spinti anche da queste mie considerazioni, si ravvedano e nei nostri campetti di periferia sappiano comportarsi come si deve, intrisi di sano spirito sportivo. Perché io penso, so peraltro di essere in grande compagnia, che in quei posti, il rivale vada rispettato, non eliminato, altrimenti il gioco finisce. L’avversario dovrebbe diventare piuttosto un compagno di viaggio, quello che mi permette di poter esprimere talvolta il meglio di me stesso, del mio potenziale. “No avversario, no party!”.
Mi corre un brivido per la schiena pensare che questo modo di agire possa perfino rappresentare una delle cause che danno origine a molti fenomeni di violenza che siamo costretti a subire, anche solo da spettatori, quando ci apprestiamo ad assistere a qualche contesa ti tipo sportivo. Capita spesso, infatti, di trattare il tifoso della squadra avversaria come l’equivalente, fuori dal campo, non di quello che dovrebbe essere semplicemente l’effettivo rivale della contesa ma, una volta di più, come il nemico da battere con ogni mezzo e sul quale affermare la propria supremazia.
Credo che ricorrere a politiche repressive sia quasi del tutto vano, questa è una battaglia culturale: dobbiamo riscoprire il senso dello sport.
Vanno riaffermati il rispetto, la lealtà, la correttezza, la solidarietà e tutti quei principi sopra elencati. In qualità di responsabile tecnico dei vari settori giovanili in cui ho lavorato ho sempre raccontato ai genitori che lo sport rivolto ai più piccoli ci deve aiutare a formare il cittadino di domani. L’esperienza deve essere piacevole e coinvolgente e le differenze, scontrandosi, non devono mai essere destinate a degenerare in conflitti insanabili ma l’occasione per portare novità e arricchimento anche attraverso un modo corretto di interpretare il concetto di vittoria. Lo sport deve essere un mezzo che ci deve insegnare a risolvere conflitti tra i diversi, a renderci consapevoli dei nostri limiti reali, un modo per metterci alla prova e farci conoscere anche, perché no, la soddisfazione di avercela fatta e, pur senza trascurare il fattore vittoria, un modo per conoscersi, per assaporare il gusto della soddisfazione personale dell’aver saputo prevalere sull’avversario nella sfida. Sarà persino bello assaporare la consapevolezza di aver espresso il meglio di sé, scoprendosi migliori di quanto si pensava, davanti ad un avversario troppo forte (accettazione della sconfitta). Così inteso lo sport non è più riconducibile ad un’astratta propensione alla perfezione, non ad una gara ad ostacoli da superare, quanto ad un qualcosa che va vissuto, esplorato. I limiti e le fragilità non devono rappresentare un problema ma un banco di prova per le nostre capacità.
Un esempio su tutti ci viene offerto dagli atleti paralimpici. Le loro sfide cariche di “inesattezze” non sono meno avvincenti dei loro colleghi “esatti”. Il gioco sa superare le fragilità e le differenze, anzi, le promuove e ne esalta le eccellenze che non sono solo quelle dettate dai vincitori, ma anche quelle di coloro che, con grande forza di volontà, non mollano, con dignità non si abbattono e con onestà sanno riconoscere e applaudire chi si è dimostrato più forte.
“Noi siamo il mondo delle regole” l’ho sentito più volte ripetere dal nostro presidente Ermes Canciani, ed è vero! È proprio lo sport che ci fa apprezzare il legame che esiste tra libertà e regole. Il gioco, infatti, ci deve rendere più liberi non dalle regole, ma grazie ad esse, in un quadro di vincoli di reciprocità: per giocare bisogna essere in due, ricordiamocelo sempre e perciò consentitemi di invitare tutti ad essere più responsabili: la partita sarà più bella.
Buon inizio di stagione a tutti.
Loris Garofalo
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