VI DICO LA MIA - Sei un tifoso sfegatato o un tifoso spettatore?
Far dipendere il proprio stato umorale da quello che è successo in campo alla squadra del cuore è completamente illogico. Ma questa irrazionalità congenita che caratterizza il tifoso è forse l'unica cosa di selvaggio che ci sia rimasta...
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Si affrontano scienza, politica e economia come se fosse questione di tifo. Poi quando si tratta di calcio tutti a fare analisi tecniche. (M4gny, Twitter)
Partiamo da un esperimento scientifico alquanto curioso ma, a parer mio, per niente sorprendente per chi, come me, da sempre segue le vicende sportive. Due gruppi di tifosi, “nemici fra loro”, appartenenti a due squadre diverse sono stati sottoposti ad una risonanza magnetica cerebrale mentre veniva loro mostrato un filmato con le azioni salienti delle partite dei loro beniamini.
L’obiettivo dichiarato era quello di capire quali aree del cervello e come, fossero interessate nel processo del tifo. Dallo studio è scaturita una cosa interessante: mentre le regioni cerebrali deputate alla visione si comportavano nello stesso modo (i due gruppi vedevano le stesse azioni), le aree riservate alle funzioni cognitive, ovvero alla conoscenza, reagivano in maniera assai diversa. Cioè a dire che i due gruppi guardavano e riconoscevano la stessa partita, ma al momento di un contatto dubbio vedevano due cose diverse: gli uni erano sicuri del rigore, gli altri della simulazione. Non mi sorprende affatto: dopo aver assistito ad una partita, quante discussioni abbiamo fatto senza trovare alcunché in comune con i nostri interlocutori? Anche senza esperimento già si sapeva che c’era una correlazione tra i tifosi della stessa squadra e tante differenze significative tra i due gruppi. Ed è proprio questo ciò che permette a fan di squadre rivali di sviluppare una diversa interpretazione della stessa partita. Tuttavia sapere che la scienza supporta l’esperienza è decisamente una cosa molto positiva. Le conclusioni della ricerca, infatti, hanno certificato come, alcune aree del cervello risultino influenzate da pregiudizi, ideologie, appartenenza, ecc., riconoscendo nell’agire del gruppo un istinto umano primordiale che si è conservato pressoché intatto durante la nostra evoluzione.
Ma andiamo per ordine. Come viene definito il tifo? Un fenomeno sociale per cui un individuo, oppure un gruppo, s'impegnano a sostenere con entusiasmo la partecipazione di un atleta o di una squadra in una determinata disciplina sportiva. Lo sviluppo della passione del tifo in un individuo è generalmente riconducibile all'ambiente sociale in cui egli interagisce. Nell’antica Grecia i giochi olimpici di Olimpia erano in grado di fermare le guerre! Lo sport metteva in risalto l'armonia del gesto atletico abbinato ad una pace sia fisica che mentale in un'atmosfera sacra ed innocente.
Nell'antica Roma era tutt’altra cosa e ben lontana da quella dei greci. Infatti nelle arene dei circhi e degli anfiteatri romani il popolo andava a svagarsi e sfogarsi assistendo a battaglie feroci di gladiatori in cui uno dei due doveva morire. La gente seguiva queste manifestazioni come il fanatismo calcistico attuale. Fanatismo a cui spesso non si astenevano neanche gli imperatori.
Nel tifo moderno, l'immaginario collettivo vede i tifosi come spettatori che, allo stadio, intonano cori e sventolano striscioni o bandiere per incitare la propria squadra o, viceversa, sminuire l'avversaria. Benché il tifo possa apparire come un fenomeno positivo in sé, nella sua dinamica sono ravvisabili purtroppo anche molti aspetti deleteri. Uno di questi riguarda, per esempio, lo sfociare della fede sportiva in atteggiamenti di violenza verso i sostenitori di squadre avversarie. Non sono infatti rari gli episodi di scontri, tumulti, risse e atti di teppismo che hanno spesso causato gravi conseguenze.
La prima considerazione che mi viene in mente è che il tifo è anche un modo per uscire al di fuori di sé. Sostenendo veramente una squadra siamo trasportati in un’altra dimensione e, per certi versi, appunto fuori dalla realtà. Secondo un altro studio di due economisti dell’Università del Sussex, pare che il tifo regali più delusioni che gioie: è come se facessimo un investimento a perdere! Da un articolo di Simone Valesini pubblicato su Repubblica il 26/07/2018 apprendo che “Stando alla loro analisi, al termine di una partita i tifosi della squadra vincitrice guadagnano 3,9 punti di felicità, in una scala che va da 1 a 100. I perdenti invece si trovano in una situazione molto più estrema: l’umore dei fan in questo caso peggiora infatti di 7,8 punti. E se gli effetti della vittoria durano circa un’ora, quelli di una sconfitta svaniscono ben più lentamente, visto che l’umore dei perdenti resta pessimo anche a tre ore dal termine della partita”. Però anche questo aspetto ci era già noto per esperienza diretta. Ora vai tu a capire perché il risultato della squadra del cuore riesca ad influire sul nostro umore! Per me resta incomprensibile il solo pensare che dei calciatori che neppure conosciamo direttamente, spesso strapagati, siano capaci di rovinare la nostra esistenza per giorni e settimane. La verità è che un motivo, o meglio una ragione vera, non c’è: il tifo resta inspiegabile. Taluno è meteoropatico, talaltro sarà calciopatico! Comunque sia, il tifo io lo paragonerei ad una religione laica. “Non c’è più religione, sono cadute le ideologie, non ci sono più valori di riferimento, crolla la famiglia” ma, tifo e tifosi invece sempre là, fermi, risoluti, fedeli, un comportamento che potrebbe anche essere accostato alla superstizione.
Inoltre nel tifo sfegatato non c’è niente di utile, non ci si guadagna proprio nulla ma si tifa proprio perché è l’ultimo gesto inutile, improduttivo e ribelle che ci resta. Certo, tifare per il Real Madrid porta di solito molte soddisfazioni dal momento che spesso si sta dalla parte dei vincitori, ma come spiegare il tifo per una squadra piccola, diciamo provinciale? E poi farsi dare dei trogloditi, farsi criticare e demonizzare dai giornalisti e in genere da chi produce cultura, trascurare gli affetti familiari, in definitiva rovinarsi la salute ma in nome di che cosa? Perché?
Non vale neppure l’alibi che un tempo ci raccontava che la squadra del cuore era un pezzetto di nostra identità, regionale o nazionale che sia. Oggi tante squadre del cuore hanno mantenuto solo i colori sociali e gli interpreti, tutti, dal presidente all’ultimo della rosa spesso non appartengono, non dico al nostro territorio regionale, ma neppure alla nostra nazione! A ben guardare, mi verrebbe da dire che questi fanatici ci potrebbero sembrare tifosi di squadre che non esistono più, superati dalla storia, dagli eventi e dal calcio stesso. Eppure proprio per il fatto che la loro bandiera sventola ancora, restano lì a sostenere la sola maglia, nonostante la realtà li abbia ormai del tutto travolti. Tifosi per sempre ma fuori dal tempo.
Io, poi, sono cresciuto in un’epoca in cui si descrivevano le masse come entità assolutamente irrazionali opposte all’individuo che, invece, è l’unico dotato di sana responsabilità. Il tifoso è massa, è folla e in lui albergano principi inconfutabili: “Noi siamo i migliori, tutti gli arbitri sono venduti, tutti i rivali sono imbroglioni”. Una sorta di pregiudizio collettivo e irrazionale che nulla ha da spartire con l’individuo responsabile di cui sopra che però, a ben vedere, è anche un soggetto prevedibile e, per certi versi, è facile a farsi trascinare in un vivere monotono, sopraffatto da regole in un contesto persino al limite della noia. Solo una società come la nostra, maniaca del controllo, può pensare di imbrigliare la natura in una morale che ci spiega l’eticamente corretto. Il tifo, dunque, fa parte dell’uomo, utile sì, ma come valvola di sfogo, necessaria per canalizzare la naturale nostra aggressività. Anche perché quest’ultima, quando repressa e non espressa, talvolta sfocia in forme ben più inquietanti e pericolose. Di più, davanti allo sport che oggi si presenta come spettacolo, il tifo resta l’ultimo baluardo comune prima di vederci diventare noi tutti individui consumatori a tutti gli effetti: il vero tifoso se ne frega infatti dello spettacolo, e la sua vita (sportiva) è segnata dalla sofferenza in nome di una fede, una vocazione laica che lo accompagna fin dall’infanzia, cosa questa, davvero molto indigesta alla scienza, perché inspiegabile razionalmente.
A differenza del tifoso, l’umore dello spettatore invece non dipende dal risultato, è libero di guardarsi e gustarsi l’evento sportivo. Molti tifosi addirittura condannano questo atteggiamento distaccato senza capire che così facendo si autoaccusano di un comportamento non equilibrato. Lo spettatore non ha ferite aperte che sanguinano sempre ogniqualvolta ricorda la coppa persa negli ultimi minuti, lo scudetto perso all’ultima partita o il mondiale sfumato all’ultimo rigore. A differenza del tifoso, lo spettatore tiene separata la sua vita da quella della squadra e non identifica mai il suo umore con la prestazione sportiva. A differenza del tifoso, non considera un segno distintivo soffrire quando la squadra perde perché lui ha anche altro nella vita.
Quindi chiarito che il punto centrale attorno a cui ruota tutto è il tifoso, che non è l’ultrà (peraltro degenerazione del tifoso, basta sommarvi una personalità violenta e un’assenza di cultura), ma il vero tifoso, magari corretto, ma emotivamente molto coinvolto.
Riassumendo, credo che razionalmente si dovrebbe comprendere che è oltremodo assurdo spersonalizzarsi in una squadra, illudendosi di farvi parte. Chi vince lo scudetto sono i giocatori, l’allenatore, la società; chi prende i soldi sono ancora loro. “Abbiamo vinto!”, ma tu tifoso non hai vinto proprio nulla! Il giocatore si becca un contratto milionario e si compra il Suv, e tu? Sempre la stessa vitaccia che talvolta ti concede al massimo qualche evasione grazie alla tua squadra del cuore. Ora la domanda principe resta: come può una persona equilibrata lasciare il proprio umore nelle mani di undici ragazzi in calzoncini corti? Sì, perché essere abbacchiati dopo aver perso uno scudetto all’ultima partita o una finale di Coppa dei Campioni negli ultimi minuti è una vera e propria dipendenza. Far dipendere il proprio stato umorale (felice/depresso) da quello che è successo sul campo è completamente illogico e preoccupante. Il calcio diventa una droga che lenisce dolori più profondi senza che ci sia vero amore perché l’amore prescinde dalla dipendenza.
Non so se questo che sto per dire sia da considerarsi un vanto per il tifoso o solamente una sua difesa che ha il sapore di un arrampicarsi sugli specchi ma io “vi dico la mia” lo stesso. A me pare che questa irrazionalità congenita che caratterizza il tifoso sia forse l’unica cosa di selvaggio che ci sia rimasta. Secondo voi va salvata o affondata?
Loris Garofalo
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